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note dell'autore
VODKA
MARTINI PER TUTTI!
Non ho preteso di scrivere una biografia teatrale di Truman Capote,
né un'ambiziosa “interpretazione” della sua figura
letteraria. Tanto meno di portare sulla scena quel che lui ha già
detto meglio di chiunque altro. Solo di render conto di quel che
ogni grande scrittore continua a dire anche a chi lo legge a distanza
di anni. Non mi è stato difficile evitare di “specchiarmi”
in un personaggio per tanti aspetti così lontano da me. Pur
assumendomi la responsabilità della mia anacronia, ho solo
cercato di raccogliere quel che Truman Capote ha seminato. Questo
è quel che mi “ha raccontato”, con la straordinaria
leggerezza di chi chiacchiera sorseggiando un Vodka Martini.
Il lato oscuro di un'America che altri - prima, insieme e dopo di
lui - hanno esplorato.
La paura dello sconosciuto che minaccia la tua famiglia e la tua
proprietà. La paura (e insieme l'attrazione) che suscita
il “diverso”, ma anche la paura che lo stesso diverso
prova sentendosi tale e tentando di essere accettato, salvo scoprirsi
in extremis “tollerato” (come diceva Pasolini) solo
ipocritamente, e riappropriandosi dell'unica identità che,
a ben vedere, gli è stata realmente concessa: quella di intruso,
di presenza minacciosa.
Tante armi da fuoco: Colt, Winchester, bazooka, bombe, napalm, “pistole
fumanti” o pistole letterarie come quelle dichiarate dallo
stesso Capote a proposito del suo Preghiere esaudite (“Il
libro è diviso in quattro parti e, in effetti, ha proprio
la struttura di una pistola. C’è l’impugnatura,
il grilletto, la canna e, alla fine, il proiettile”).
Colonizzazioni impossibili, integrazioni fasulle, ribellioni coltivate
inconsapevolmente nel salotto di casa.
Il mito dell'ascesa sociale, dell'integrazione, di un diritto alla
felicità iscritto nella Costituzione (al pari del diritto
alla difesa personale) e che suona quasi come un imperativo se non,
in modo sinistro, come un ordine militare.
Il mito della libertà, il fatto che vederla o pensarla sempre
minacciata garantisca, se non il suo effettivo esercizio e godimento,
almeno la sua continua salvaguardia e riconquista.
Un'America bisognosa degli Hickock e Smith che ti entrano in casa
nel cuore della notte, quasi che non ti aspettassi altro, in fondo.
Un'America sempre sveglia e vigile nel suo letto, come il vecchio
de Il cuore rivelatore di Edgar Allan Poe.
Dio benedica quell'America e danni i suoi cantori.
Dei dannati come Truman Capote (e di quelli a seguire) ho tentato
di parlare.
Lo ringrazio per la sua sagace ubriachezza.
MASSIMO SGORBANI
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note di Gianluca
Nevicava
quella sera a New York. Era Febbraio e faceva un freddo cane. Ma
io ero lì con un fiore in mano, pronto a lasciarlo davanti
alla casa di Philip Seymour Hoffman, l’attore che di fatto
mi aveva messo sulle tracce di Truman Capote con la sua sbalorditiva
interpretazione che gli valse il premio Oscar. Si “trasformò”,
in un film intitolato “Capote”, nel grande e irriverente
scrittore, come lo sanno fare solo i fuoriclasse. E mi piacque a
tal punto che decisi di andarlo a incontrare di persona il piccolo
grande Truman. Per Seymour Hoffman, ero arrivato in ritardo, ma
per conoscere uno scrittore non c’è niente di meglio
che leggere i suoi libri, che spesso, più della persona stessa,
raccontano chi è. O chi è stato. E ho cominciato a
macinare pagine su pagine. E come spesso accade, quando ti imbatti
in un genio, sono rimasto folgorato. A onor del vero, a irrobustire
il mio desiderio di portare in scena un mio personale Truman, ha
contribuito un altro attore, questa volta inglese: Toby Jones, che
ha fatto uno strabiliante Capote nel film “Infamous”.
E a quel punto ho capito che, forse, si poteva fare, si poteva rischiare
di trasformarsi e diventare anch’io, e per la prima volta
nella mia carriera, una “maschera”. Non già dietro
il più rassicurante schermo, ma in prima linea, su un palcoscenico.
E tutto è cominciato. Decidendo, per prima cosa, di farmi
dirigere in questa perigliosa navigazione da Emanuele Gamba regista
conosciuto per “Spring Awakening” e con cui è
nato questo desiderio di continuare a scommettere insieme a viso
aperto.
Lui, Emanuele, mi ha chiesto: “perché Truman Capote?”.
E, allora come oggi, faccio fatica a rispondere. Ma gli ho promesso
che ci proverò e lo faccio. Adesso.
Dunque, escluderei la vanità. Pur essendo un attore, non
abita dalle mie parti. La vanità. Forse una sfida, quella
sì. Per vedere se sono capace a osare tanto, a diventare
così smaccatamente un altro da me. E che altro! Certo per
fare una trasformazione, la galleria di personaggi poteva essere
infinita. Avrei potuto essere da Chaplin a Pitsorius, ma c’è,
in Capote, qualcosa che va al di là, che colpisce, ipnotizza,
la mia fantasia.
Intanto lo straordinario gusto per la Parola, il racconto, l’aneddotica,
fino ad arrivare alla bugia che ho sempre trovato così eccitante.“Io
sono un bugiardo. Un bugiardo che dice sempre la verità”,
scriveva Jean Cocteau. Perfetto, anche per Truman. E, forse, anche
per il sottoscritto. Bisogna avere una favella di prim’ordine
per essere bugiardi. E una memoria da record. Credo che a Capote,
entrambe le cose, siano state elargite in gran quantità.
E poi la perfidia che assomiglia da vicino al desiderio di stupire,
di lasciare di stucco, di non passare inosservati. Di dire, talvolta,
verità scomode. Io sono lontano da tutto questo anni luce,
ma ne sono affascinato come lo ero da certe persone che ho conosciuto
nella mia vita e che invece questo gusto ce lo avevano sviluppato
all’ennesima potenza. Perché spesso cerchiamo di stupire
per essere accettati. O amati. Si cerca il successo per esserlo.
Amati, appunto.
Mi sarebbe piaciuto essere eccentrico come Truman. Ma non ne avrei
mai avuto il coraggio. Ma il palcoscenico te lo consente perché
su quelle quattro tavole, puoi tutto. Si tratta di avere coraggio.
E come dice qualcuno: “Il coraggio è fatto solo di
paura”.
Forse tutti e due, io e Truman intendo, abbiamo avuto una carriera
amorosa scandalosa agli occhi dei più. Certo, io non posso
vantare nei miei racconti, le misure anatomiche di Errol Flynn,
non ho mai sfidato a braccio di ferro Humprey Bogart e, cosa ancora
più elettrizzante, non sono mai entrato nella camera da letto
di Marlon Brando. Ma anch’io, come direbbe una bella canzone:
“posso dire la mia sugli uomini”.
Ma
c’è in Truman Capote una cosa che mi colpisce più
di ogni altra. Il senso di struggente malinconia, o, come direbbe
Pasolini, di “disperata vitalità”. Ecco, a queste
sensibilità, con le dovute proporzioni, sento di potere assomigliare.
Non so perché percepisco un legame fitto fra malinconia e
vitalità . Sembrerebbero agli opposti. Ma non lo sono. Ci
si sforza talvolta di essere vitali, di sfidare le regole del tempo
che passa, per sfuggire al senso di struggente malinconia. “Ho
sempre cercato di esorcizzare i miei demoni, le ansie sotterranee
che dominavano i miei sentimenti e la mia fantasia: il mio ignorare
tutto questo era probabilmente uno scudo protettivo fra me e la
fonte inconscia del mio soggetto”, scrive Capote parlando
del suo romanzo “Altre voci altre stanze”. Per tutte
queste ottime ragioni, sto da trent’anni su un palcoscenico
a raccontare chi sono.
Insomma, ho voglia di giocarmela questa partita a Teatro. Un giorno
chiesero a Truman: “E come fai a sapere che quello che scrivi
avrà successo?” E lui rispose: “ E’ come
il baseball. Imboccare il primo lancio buono è difficile.
Ma una volta fatto quello, il resto è facile”. Quindi
basterà pronunciare le prime battute che Massimo Sgorbani
scriverà per me e, forse, tutto mi sembrerà più
facile.
C’è il sole adesso fuori. Lo stesso che c’era
a Brooklyn davanti alla casa di Truman, il giorno dopo del fiore
posato per Philip Seymour Hoffman. Allora come adesso sentì
che il cerchio si chiudeva. Come per magia. Suonano le note di “Moon
River” e mi siedo per una “Colazione da Tiffany”.
“La forma delle cose” è più chiara. “I
cani abbaiano” e, finalmente, forse, le mie saranno “preghiere
esaudite”.
GIANLUCA
FERRATO |